PANDEMIA E PRESENTE DISTOPICO

Foto di Peter H da Pixabay

DI SERGIO BELLAVITA

Il virus  covid che alla fine del 2019 dalla Cina in poche settimane si è diffuso ovunque sta minando violentemente i già precari equilibri su cui si reggevano buona parte dei paesi.

Vecchie e nuove certezze si sono polverizzate davanti ad una pandemia che è riuscita in pochi giorni a riportare lo Stato ad una funzione centrale e decisiva dopo decenni di cessione colpevole  al privato del primato sull’economia e persino sui bisogni sociali essenziali.

Il dogma del pareggio di bilancio e lo stesso termine austerità sono rapidamente stati archiviati sotto il peso drammatico degli effetti economici del lockdown.

La dimensione del nuovo intervento pubblico in economia è poderosa, ovunque nel mondo, in particolare in quella stessa Europa fondata sulla feroce e brutale difesa dei rigidi parametri dei conti pubblici..

Nel caos pandemico lo Stato italiano torna a produrre acciaio entrando direttamente nella proprietà dell’ex Ilva e ad avere nuovamente una compagnia aerea di bandiera, Alitalia.

Tuttavia ciò non ha comportato affatto una radicale inversione di rotta rispetto alla natura liberista dei provvedimenti ovvero alla supremazia del capitale rispetto al lavoro.

Lo testimonia efficacemente la conferma della volontà di cessione da parte del governo Conte, ma sarebbe più corretto dire regalo, di Monte dei Paschi di Siena, probabilmente a Unicredit, con tanto di dote miliardaria in aggiunta.

Questo accade proprio nel momento in cui qualsivoglia nuovo piano straordinario di intervento, a fronte del crollo dell’economia nazionale, avrebbe assolutamente bisogno di una banca pubblica.

Non è solo la vicenda Mdps a palesare la  direzione di questa discontinuità singolare.

La dimensione e la forma che sta assumendo il sostegno alle imprese con risorse pubbliche, considerato che resta immutato il sistema fiscale a tutto svantaggio del lavoro, conferma una linea di tendenza a realizzare una sorta di capitalismo di Stato in cui il privato è assistito e foraggiato dal danaro pubblico.

Non è un fatto nuovo. Da sempre il libero mercato ha palesato la sua natura parassitaria e tendenzialmente monopolistica.

Tuttavia tale processo non si nasconde più dietro progetti di innovazione, clausole sociali o etiche, contratti di programma per nuovi insediamenti.

Il capitale chiede e ottiene i suoi ammortizzatori, molto poco sociali..

Non è in discussione la necessità di non far precipitare nel baratro settori importanti dell’economia nazionale quanto invece quello di non regalare risorse sottratte al bene comune per interessi esclusivamente privati.

Ogni centesimo dato alle imprese, piccole o grandi che siano, dovrebbe essere legato a precise condizioni sociali: rispetto dei contratti nazionali per i lavoratori, cancellazione lavoro precario, reintroduzione della tutela dell’ex art.18 ecc ecc.

Ed inoltre, per le grandi imprese, dovrebbe corrispondere ad una partecipazione societaria pubblica.

Come era ovvio la pandemia ha acuito le già inaccettabili e violente diseguaglianze sociali e alimentato il processo di impoverimento del lavoro, delle classi popolari e la proletarizzazione di settori crescenti della popolazione.

Il lavoro, se si eccettua una straordinaria mobilitazione di molte fabbriche all’inizio della prima ondata di covid, è stato ed è tutt’ora il grande assente dal dibattito pubblico sulle politiche da mettere in campo.

Qualche segnale incoraggiante è giunto dalla lotta dei riders, dal protagonismo dei braccianti, dai lavoratori della logistica e dal mondo dello spettacolo.

Tuttavia il lavoro, soprattutto quello sindacalizzato,  testimonia ancora un livello di passività altissimo.

La mancata predisposizione di strutture sanitarie adeguate e le mancate assunzioni di medici e infermieri, a fronte della seconda ondata da tutti evocata e attesa, non chiama solo il governo Conte alle sue gravissime responsabilità ma parla direttamente anche della responsabilità del sindacato in primo luogo nel non aver preteso e lottato da subito per adeguare la sanità pubblica a fronteggiare la pandemia. Tre mesi, almeno,  di silenzio colpevole che ci hanno condotto nuovamente sotto scacco del virus.

Un milione di posti di lavoro perduti, stagionali e intermittenti colpiti duramente e difficilmente censibili, il mondo delle partite Iva senza più committenti e quello di un sommerso che sfugge ad ogni statistica hanno pagato e pagano il costo più alto di tutti alla crisi pandemica.

Eppure è un movimento di destra in cui ovviamente c’è di tutto, compresi precari e disoccupati, che occupa i pensieri del governo e le pagine dei giornali.

Non che a sinistra non si sia tentata una mobilitazione. Ma quello che si è intravisto è poco più o poco meno del quadro degli attivisti. Una mobilitazione senza popolo.

La verità è che il covid ha messo cinicamente a nudo la drammatica crisi della rappresentanza sociale e politica del lavoro e, per certi versi, l’ha acuita.

L’irrilevanza assoluta della sinistra politica e sociale a fronte delle scelte di governo e imprese dovrebbe fare riflettere e indurre ad una profonda revisione del proprio agire, senza la quale è l’inerzia.

Non è forse questa crisi una straordinaria opportunità , purtroppo legata ad un dramma epocale, per cambiare radicalmente il modello economico e sociale ?

Noi crediamo di sì. Ed è forse una delle ultime possibilità che l’umanità ha per salvare se stessa e il pianeta dal rischio apocalittico in cui la  precipita la questione ambientale.

Il combinato disposto dei processi degli ultimi quarant’anni: crisi  di accumulazione e di sovrapproduzione; innovazione tecnologica e riduzione lavoro umano; depauperamento delle risorse del pianeta e rischio climatico è tale che il rischio di una tempesta perfetta quanto distruttiva sia dietro l’angolo è altissimo.

Il perenne disequilibrio globale segno di una crisi apparentemente irrisolvibile della rappresentanza ad ogni livello sono il frutto amaro dei processi sopra semplicemente citati.

È il presente distopico che governa il pianeta.

In questo quadro non particolarmente confortante occorrerebbe riprendere la costruzione di reti di solidarietà e mutualismo, di alfabetizzazione politica e sindacale di ricostruzione di luoghi di socialità strappati al mercato ed alla mercificazione di ogni cosa in un quadro di radicale produzione di conflitto.

Certo appare come un passo indietro rispetto all’assalto al cielo necessario tuttavia la realtà non può essere negata ma solo compresa e  combattuta.

La ricostruzione di una nuova soggettività di classe, senza la quale non è possibile alcuna rivoluzione sociale, non passa per la semplice denuncia dell’ingiustizia, non passa per l’identificazione del nemico da abbattere, non passa da una radicalizzazione delle parole d’ordine nella crescente irrilevanza.

La parcellizzazione del corpo sociale, la complessa gerarchia della catena dello sfruttamento e la perdita totale di coscienza di classe non ammettono semplificazioni né scorciatoie.

È un lavoro complesso e di lungo periodo quello che ci attende.

Occorre restituire  senso e valore a termini quali solidarietà, uguaglianza, democrazia, conflitto sociale e libertà.

Occorre immaginare un nuovo modello sociale, un socialismo scevro dalle orribili e nefaste storture di quello cosiddetto reale del secolo scorso.

Le straordinarie mobilitazioni negli Stati Uniti contro la criminale polizia hanno reso evidente la crescita di un popolo multietnico e radicalmente progressista.

La stessa gioia irrefrenabile per la vittoria di Biden che ha attraversato il paese ,  sebbene il nuovo presidente purtroppo non sia l’alternativa di cui hanno bisogno gli Usa e il mondo intero, ci parla di un’umanità in cammino nel cuore del capitalismo.

La storia in fondo non è ancora finita.