EX ILVA: AGONIA INFINITA

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DI SERGIO BELLAVITA

Il governo ha finalmente preso atto dell’indisponibilità del magnate Mittal a mantenere gli impegni sul rilancio produttivo e sull’adeguamento ambientale assunti all’atto dell’acquisizione del gruppo siderurgico. Palazzo Chigi tenterà di risolvere il rapporto con la multinazionale senza arrivare ad un contenzioso legale. Lo Stato a quel punto tornerà a essere il padrone del gruppo siderurgico più grande d’Europa.

E’ la tanto agognata nazionalizzazione?

No. Un eventuale entusiasmo sarebbe del tutto fuori luogo.

Quella che si profila è l’ennesima operazione di socializzazione delle perdite economiche e dei danni del disastro ambientale, sociale. Lo avevamo denunciato sin dal 2018 che la cessione a Mittal era esclusivamente finalizzata a un’operazione di pura speculazione sulle quote di mercato dell’ex Ilva e sulle tecnologie di processo. Non vi è nessuna ragione al mondo tale da convincere un imprenditore, non certo votato alla solidarietà, primo produttore al mondo di acciaio, presente in 60 paesi e con stabilimenti siderurgici in 18 nazioni a investire cifre esorbitanti per adeguare lo stabilimento tarantino agli standard di sicurezza ambientale sapendo che le quote di mercato acquisite potevano tranquillamente essere soddisfatte nell’ambito del suo gruppo. Era una semplice e lineare, ovviamente socialmente criminale, operazione di speculazione.

Diversi a non capirlo, in primis l’ex ministro Calenda che ha fatto carte false pur di cedere a Mittal il gruppo nonostante offerte più vantaggiose giunte da altre imprese e l’ex ministro Di Maio che, tramontate in una notte le promesse di chiusura dello stabilimento venefico di Taranto, ha gestito il passaggio di consegne tra l’amministrazione straordinaria e Arcelor-Mittal accogliendo il suo piano di drastico ridimensionamento occupazionale e consentendo loro, tra le altre cose, di non mantenere l’impegno a riassumere il personale rimasto in amministrazione straordinaria derogando così all’accordo del settembre 2018.

Dall’acquisizione in poi padron Mittal ha costantemente e scientificamente agito ricatti indecenti, soprusi e abusi nel rapporto con le istituzioni, i lavoratori e le popolazioni sino a ottenere il periodico afflusso di risorse pubbliche e il rinvio delle opere di ambientalizzazione e manutenzione impianti.

Il ritorno in mano pubblica del gruppo siderurgico è pertanto il minimo sindacale in questo quadro, tuttavia la questione di fondo resta quella di quale obbiettivo si persegue, di quale progettualità complessiva per lo stabilimento tarantino in particolare e per la sua città.

Qui, purtroppo, l’ipocrisia continua a governare il teatrino sull’acciaio nazionale. Tutti i soggetti in campo nella vicenda sanno benissimo che lo stabilimento tarantino non sarà mai in grado di rispondere agli standard ambientali sulle emissioni e che i costi del rifacimento impianti e altoforni sarebbero assolutamente superiori a quelli necessari alla costruzione di un nuovo stabilimento.

Gli stessi costi che si dovranno sostenere per produrre acciaio con l’acquisto delle quote di CO2 farebbero desistere chiunque da ulteriori impegni industriali.

Tuttavia, sebbene siano tutti coscienti della situazione e del prezzo ambientale che Taranto e i suoi abitanti dovranno pagare qualora davvero si dovesse decidere di rilanciare la produzione, tutti recitano, con qualche lodevole eccezioni in campo sindacale, la parte di coloro che vogliono garantire la continuità produttiva dello stabilimento. La vogliono i “combattivi” sindacati dello stabilimento genovese la cui esistenza è legata alla produzione a caldo del sito tarantino e che da sempre si sono dimostrati insofferenti alle iniziative dei magistrati tarantini contro i veleni dell’ex Ilva che ne limitavano la produzione.

La vogliono garantire Fim Fiom Uilm tarantine che ripetono come un mantra da anni le stesse ormai vuote parole su decarbonizzazione e ambientalizzazione. La vuole persino il vescovo che ha ritenuto utile intervenire pubblicamente per dire che non c’è alternativa all’acciaio a Taranto. La pretendono i tanti politici e politicanti che a sproposito innalzano la bandiera dell’orgoglio nazionale e del peso dell’ex Ilva sul Pil nazionale. Eppure un’alternativa c’è ad una nuova spasmodica e umiliante ricerca di un imprenditore o di nuovi capitani coraggiosi che prendano, il gruppo immaginiamo ora gratis, per gestirlo sino a rendere meno impattante la sua chiusura, perché di questo si tratta, in tutta onestà.

C’è un’alternativa alla lenta ipocrita agonia ed è quella di costruire in tutta trasparenza un grande accordo di programma che metta da subito sul piatto la chiusura di tutte le fonti inquinanti, il mantenimento delle sole lavorazioni a freddo, le bonifiche del sito e un piano occupazionale. I costi dell’accordo di programma sarebbero di gran lunga inferiori a quelli dell’ipocrita rilancio industriale. Lo sarebbero certamente dal punto di vista umano, a tutela della salute pubblica.

I lavoratori dello stabilimento di Taranto cosa pensano della vicenda? Negli ultimi anni il dato saliente è quello della passività, di una sorta di indolenza rispetto all’alternarsi delle gestioni dell’azienda. Certamente è cresciuta la parte di coloro che cominciano a pensare che non si possa consegnare la propria vita e quella dei propri cari all’acciaieria, tuttavia continua a essere indubbiamente minoritaria e continuerà ad esserlo sino a che non si palesi una reale alternativa occupazionale e sociale alle esalazioni velenose degli altiforni. Compito che spetterebbe a tutti i soggetti coinvolti istituzionali e sociali.

Alle obiezioni corrette di chi critica l’ipotesi di spegnimento degli altoforni contrapponendo la necessità per un grande paese industriale come l’Italia di mantenere la produzione siderurgica è giusto rispondere che si può costruire un altro stabilimento siderurgico magari questa volta non inglobando una intera città come si è fatto a Taranto

Si perché l’area dello stabilimento è più grande di quella della città. Taranto ha già pagato e pagherà ancora per anni un tributo altissimo all’acciaio nazionale, ora basta.