CHE COSA C’È DIETRO LO SCONTRO SUL DIRITTO DI SCIOPERO?

Di Sergio Bellavita

Che il Governo Meloni ed in particolare il suo ministro dei trasporti non fossero propriamente il governo dei diritti del lavoro era cosa ben nota.

Tuttavia lo scontro che si è aperto sulla questione del diritto di sciopero nasconde o contiene diversi aspetti.

Iniziamo con una premessa doverosa che non sminuisce minimamente il carattere reazionario del ministro Salvini, del governo Meloni e delle loro iniziative, ma appare necessaria per comprendere l’oggetto della discussione.

La proclamazione di Cgil e Uil non segue alla lettera la normativa della 146/90 che, a ragione, va considerata in toto antisciopero. La distinzione tra “sciopero generale” e “scioperi nazionali di categoria” tempo fa era ben nota. Erano tempi nei quali le parole pesavano e nessuno a sinistra avrebbe mai utilizzato il termine “generale” in maniera impropria, foss’anche per denominare una mobilitazione nazionale di una sola categoria.

Evidentemente i tempi cambiano. Cgil e Uil avendo proclamato uno sciopero di otto ore “a schacchiera” su più giorni (il 17, infatti, sciopera solo una parte dei lavoratori, quelli delle regioni del Centro, i dipendenti pubblici, i trasporti, i postali e i vigili del fuoco), diviso per regioni e categorie, hanno certamente mantenuto il carattere politico dello sciopero generale, ma dal punto di vista formale non hanno proclamato uno sciopero che, secondo le regole sottoscritte, possa essere formalmente dichiarato “generale”.

Per queste ragioni sono incappate, esattamente come spesso è successo in altre circostanze al sindacalismo conflittuale “di base” nel silenzio assoluto della politica, nel taglione della Commissione di garanzia.

Infatti, la normativa prevede che lo sciopero sia da considerare “generale” quando scioperano tutte le categorie in un’unica data o in più date articolate su base territoriale. Nel caso di mobilitazioni nazionali “non generali” le regole prevedono che la prima iniziativa di sciopero sia di sole 4 ore. Cosa che tutti i delegati sindacali dei grandi gruppi assoggettati alla 146 conoscono bene.

Per quali ragioni allora si è denunciato l’attacco alla democrazia?

Perché il governo Meloni ha accettato di arrivare alla prova di forza costringendo il sindacato a ridurre a 4 ore lo sciopero nei trasporti sotto la minaccia delle precettazioni?

E’ evidente che, considerato il livello ormai molto basso di partecipazione alle mobilitazioni, il primo problema del governo Meloni non sia esattamente lo sciopero di Cgil e Uil. Salvini, però, con il suo attacco tenta di accreditarsi come il difensore degli utenti del trasporto pubblico, che è l’unico vero settore dove anche una debole partecipazione dei lavoratori allo sciopero produce un effetto concreto sul numero dei mezzi circolanti e sul numero delle corse, generando così un disagio reale.

Rispetto alle politiche del governo Meloni, il malcontento tra il popolo della destra, che ormai è purtroppo maggioritario in tanti luoghi di lavoro, è certamente ampio e le iniziative sindacali rischiano di polarizzarne almeno una parte.

Il nervosismo di Salvini che aggredisce il sindacato, è solo la punta dell’iceberg di un’insoddisfazione crescente nel corpaccio del gruppo dirigente dei partiti di governo.

Se è vero che l’accesa discussione sul diritto di sciopero ha certamente allontanato nuovamente l’attenzione mediatica dai contenuti della manovra economica, è anche vero che Cgil e Uil, pur subendo l’offensiva salviniana, hanno tratto un grande beneficio sul piano mediatico, rispetto ad una mobilitazione che non avrebbe avuto certamente né grande risonanza né il seguito che meriterebbe nei luoghi di lavoro.

L’effetto rivitalizzante del pesante attacco della destra nei quadri dei due sindacati confederali farà certamente da volano alla partecipazione nelle piazze e forse anche ai livelli di adesione allo sciopero.

Anche l’opposizione politica, pur essendo largamente estranea alle dinamiche del mondo del lavoro e non conoscendo affatto le complesse regole per la proclamazione di scioperi in settori governati dalla legge 146/90, ha cavalcato l’indignazione generale a sinistra contro il governo e trae anch’essa un beneficio non previsto dalle iniziative di Salvini.

Landini e Bombardieri hanno usato, giustamente, toni assai duri nei confronti della Commissione e del governo, arrivando a sostenere che saremmo di fronte ad un vero e proprio attacco alla democrazia. La Commissione “di garanzia”, ci permettiamo di dire, per sua stessa natura e ruolo non è indipendente dalla politica che la regge e che l’alimenta. Non a caso ha assunto negli anni un ruolo di “legislatore aggiunto” sul tema del diritto di sciopero, riducendo sempre di più le maglie già molto strette della legge 146.

Chi ha memoria (come fatto anagrafico) ricorderà la battaglia dei sindacati confederali (Cgil compresa) per introdurre una limitazione del diritto di sciopero all’inizio degli anni ’90, prendendo a pretesto il presunto carattere corporativo delle lotte in alcuni settori. Quella legge, la 146/90, ha avuto un ruolo fondamentale nell’agevolare nel trentennio successivo la depredazione di salari e diritti ai danni dei lavoratori. E’ quindi con l’approvazione di quella legge che si è colpito drammaticamente il diritto di sciopero e la democrazia stessa in questo paese. Non è un fatto nuovo.

L’attacco di Meloni e di Salvini è un tassello in più nella deriva autoritaria dell’Italia e per questo va aspramente combattuto.

Non solo, nelle pieghe della discussione che si è innescata tra governo e Cgil e Uil riemerge il tema della rappresentatività. Qualcuno sostiene che il diritto di sciopero debba essere strettamente connesso alla rappresentatività delle organizzazioni sindacali, come se il consenso fosse inamovibile e una volta raggiunto fosse per sempre. Non è un tema nuovo ma è il terreno sul quale, per assurdo potrebbero abbinarsi la vocazione autoritaria del governo di destra e l’interesse di Cgil, Cisl e Uil a veder mettere definitivamente fuori gioco qualunque altra organizzazione sindacale, privandola della possibilità di usare lo strumento dello sciopero perché ritenuta “non rappresentativa”.

Se così fosse non solo la democrazia non sarebbe affatto salva ma si cancellerebbe insieme al diritto di sciopero il libero esercizio sindacale, ovvero la libertà di organizzarsi sindacalmente per i lavoratori scegliendo il sindacato che preferiscono.