UNA SCONFITTA DELL’IMPERIALISMO CHE RISCHIA DI PORTARE ANCORA PIÙ INDIETRO L’AFGHANISTAN

Foto di Combat Camera Poland da Flikr

DI FABRIZIO BURATTINI

Così come la lotta per la sconfitta dell’imperialismo americano nella guerra del Vietnam ha accompagnato l’ascesa operaia e giovanile degli anni 60 e 70 del Novecento, altrettanto la guerra degli USA e dei loro alleati in Afghanistan si è associata con le sconfitte subite dai movimenti sociali nei primi due decenni del XXI secolo.

Gli anni 2000 si erano aperti all’insegna del più importante e massiccio movimento internazionale contro la guerra della storia. Quel movimento si era acceso già negli ultimi anni del Novecento per rispondere alla prima guerra del Golfo scatenata da George W. Bush e si era poi straordinariamente amplificato all’inizio del 2000 proprio per rispondere alla “guerra permanente globale al terrorismo” sferrata dagli USA dopo gli attentati alle “torri gemelle” del settembre 2001. Il movimento si dispiegò invadendo stabilmente le piazze delle principali città del mondo denunciando la falsità e la menzogna intrinseca nello slogan della “guerra giusta”.

In Italia, quel movimento mise in difficoltà l’ormai compiuta adesione della ex-sinistra all’atlantismo, costringendo gli epigoni del Partito comunista raccolti nei DS a balbettare presunte distinzioni tra un “giusto spirito di pace” e la “necessità dell’intervento militare” in Afghanistan per “portare la democrazia e il progresso nel mondo retrogrado dominato dall’Islam”. Da allore le missioni militari, con tanto di aerei da bombardamento, carri armati, mitragliatrici e bazooka, iniziarono ad essere chiamate “missioni di pace”.

La totale sordità delle istituzioni alle grida contro la guerra di milioni di persone in piazza, la campagna martellante per convincere un’opinione pubblica che ancora riteneva di dover credere all’articolo 11 della Costituzione, i ripetuti voti pressoché unanimi del parlamento a favore delle “missioni di pace”, l’adesione a quei voti perfino dei deputati e dei senatori della “sinistra radicale” finirono per sfiancare e ridurre quel movimento, facendo rientrare le mobilitazioni pacifiste, rendendole man mano ultraminoritarie.

Dicevamo che quella vicenda accompagnò le sconfitte anche sociali, infatti il movimento pacifista si sviluppò intrecciandosi con il movimento per la difesa e l’ampliamento dell’articolo 18, movimento che, anch’esso, si infranse contro il muro della pervicacia ultraliberista dei governi, di destra, ma anche di centrosinistra.

Ieri, con il completo ritorno dei Talebani senza combattere nella capitale afghana Kabul, il cerchio si chiude.

Il governo di Ashraf Ghani non ha tentato neanche la minima resistenza, nonostante i presunti 300.000 militari afghani addestrati per 20 anni dalle forze della coalizione occidentale (di cui solo pochi giorni fa Joe Biden osannava il coraggio e la “capacità di resistenza” allo scopo di convincere gli alleati della NATO sconcertati dall’essersi fatti trascinare in un’avventura costosissima e inconcludente).

L’imperialismo statunitense lascia sul terreno, in Afghanistan, oltre 2.000 miliardi di dollari spesi, tra spese militari dirette e spese per l’ “esportazione della democrazia”, oltre 100.000 morti tra gli afghani (per circa la metà civili), quasi 2.500 morti tra le truppe USA, e 1.200 tra quelle degli alleati (compresa l’Italia, che ha contato 53 morti per il suo contingente). Lo stesso sviluppo civile ed economico del paese è stato sostanzialmente bloccato dal permanente stato di guerra: i profughi che hanno lasciato l’Afghanistan sono quasi tre milioni. Quelli che sono stati costretti a spostarsi all’interno del paese sono altri 4 milioni. Dopo 20 anni di esportazione della democrazia occidentale la disoccupazione dilaga e il tasso di povertà sfiora il 50% della popolazione.

Anche quanto a democrazia “importata”, occorre dire che il governo in fuga era un apparato politico e militare disfunzionale e corrotto, peraltro insediatosi sulla base di votazioni ampiamente fraudolente, e che non è stato certo in grado, senza più la copertura americana, di offrire un’alternativa politica (né tantomeno militare) ai talebani. I governi regionali, anch’essi, hanno fondato per anni il loro potere sulla connivenza con l’occupante e non hanno alcuna reale base di consenso.

Per una popolazione spossata ed esausta di guerra e di corruzione, la vittoria dei talebani, per quanto tutt’altro che amati, appare come una parziale soluzione, perlomeno una tregua. Inoltre, tra le popolazioni delle campagne, nelle zone via via “liberate”, i mujāhidīn hanno imposto nuove istituzioni che perlomeno nell’immediato si contraddistinguono per imparzialità ed efficacia.

Certo, altra cosa è e sarà nelle città, peraltro cresciute a dismisura con gli esodi interni (si pensi solo che Kabul, durante i 20 anni di guerra, è passata da 600.000 abitanti a 5 milioni), dove la gente (e in particolare le donne) si sono parzialmente abituate ad uno stile di vita un po’ meno oppressivo.

Al di là delle esagerazioni propagandistiche degli USA, la società afghana è cambiata e profondamente e, quindi, con il nuovo Emirato si rischia un terribile passo indietro per centinaia di migliaia di donne, soprattutto per quelle di cultura urbana. Inoltre, nonostante le rassicurazioni del nuovo governo talebano sulla clemenza verso gli ex collaborazionisti con l’Occidente, è iniziato un nuovo esodo, che con il passare del tempo crescerà e che metterà ancora una volta e ancora di più alla prova la nostra capacità di accoglienza.