LE MOBILITAZIONI A NAPOLI – PROVE DI DISOBBEDIENZA SOCIALE AI TEMPI DELLA PANDEMIA

Foto di Mrdidg da Pixabay

DI MARIO MADDALONI & MARIA PIA ZANNI

Per descrivere la esplosiva situazione napoletana e campana, si fa fatica a trovare l’incipit.

Sono tante le questioni che si sono sovrapposte negli anni seguiti alla  massiccia desertificazione industriale intervenuta. Il settore manifatturiero dell’economia regionale ha ceduto via via il passo alle attività del terziario o a sostegno del recentissimo sviluppo delle attività turistiche, dove la condizione dei lavoratori e delle lavoratrici oscilla tra il precariato ed il lavoro a grigio o a nero, mentre la disoccupazione giovanile e non, è volata verso percentuali da brivido.

Con l’incedere della seconda fase della pandemia da Covid, i nodi e i limiti di questa mutata e vulnerabile struttura produttiva regionale sono  venuti al pettine. Venerdì 23 Ottobre scorso, all’annuncio del Governatore De Luca di un nuovo lockdown in Regione, stavolta senza alcuna previsione di aiuti economici, è esplosa la prima spontanea protesta sfociata in duri scontri con le forze dell’ordine.

A scendere in piazza da subito, i commercianti e in generale gli operatori soprattutto del mondo dei bar, ristoranti e pizzerie, collegati alla movida cittadina o collaterali alle attività turistiche, per scongiurare queste misure o chiedendo interventi economici a sostegno delle attività commerciali. Si sa, che

la prima fase della pandemia ha logorato i risparmi; ora, il pericolo di un crollo definitivo delle attività è maggiormente avvertito ed è accresciuta l’esasperazione psicologica.

Solo a marzo 2020 il Governo, nazionale e  regionale, aveva provveduto a sostenere il tessuto produttivo con aiuti a pioggia, con la seconda ondata del virus, il Governatore della Campania ha chiarito che soldi non ce ne sono. Per giorni la protesta ha infranto le regole e si è estesa, interessando larghe e vere sacche di sofferenza del tessuto sociale : dai disoccupati e precari storici alle nuove figure del precariato urbano e della marginalità sociale.

Le manifestazioni in una piazza Plebiscito gremita ed in piazza dei Martiri, sotto la sede di Confindustria, proveranno a rompere la narrazione tossica della stampa mainstream di una protesta organizzata dalla camorra facendo veicolare un messaggio semplice ed unificante: Tu ci chiudi, Tu ci paghi.

Bisogna attendere l’ arrivo degli ultimi DPCM, con le Regioni contrassegnate secondo la gravità della pandemia, per prevedere e disporre un po’ di risorse a ristoro ed evitare che anche il virus della protesta si propaghi incontrollabile.

Tutto dipenderà, in ogni caso, dalla durata della chiusura imposta dalla pandemia.

Del resto, proprio in questo contesto alcune categorie di commercianti ed autonomi hanno dato prova di possedere caratteristiche e capacità di mobilitazione, sia dal punto di vista politico che nelle piazze.

Si tratta delle fasce sociali che più rapidamente hanno visto decadere il proprio status con la crisi. Semplice, per i media nazionali e locali, dare una rappresentazione tanto scontata quanto moralistica ad una dinamica sociale ed economica complessa.

Facile che scatti la semplificazione del complotto, l’accusa esplicita della partecipazione di frange legate alla camorra nelle manifestazioni di piazza.

Come se la malavita partenopea avesse interesse all’agitazione di piazza e non fosse quella, ad esempio, dei centri di analisi privati e delle strutture della sanità privata, che continuano a lucrare profitti anche in questa pandemia; dei grandi costruttori che hanno appalti nel sottobosco istituzionale e delle opere pubbliche, gestite principalmente dalla Regione, quindi interessati alla stabilità politica ed istituzionale.

O gli usurai, che ora vedranno aumentare il loro potere, vista la mancanza di liquidità provocata dalla crisi.

In realtà a Napoli, l’indebitamento di queste categorie principalmente colpite è maggiore, i servizi forniti dalle istituzioni sono colpevolmente molto più scadenti, e quindi minore è la fiducia e l’affidamento, le associazioni di categorie e i corpi intermedi molto più deboli, e dunque maggiore è la pressione sociale.

Esiste, poi, una maggiore fluidità sociale fra sottoproletariato, che vive ai margini della società di piccoli espedienti propri dei circuiti della micro criminalità, e la piccola borghesia.

Si passa spesso dall’uno o l’altro segmento, mantenendo però radicamento sociale e una certa attitudine al conflitto.

Ovviamente quando si parla di piccola borghesia, dentro c’è di tutto. C’è il piccolo commerciante onesto che paga le tasse e non ce la fa ad andare avanti, e c’è l’imprenditore che incassa migliaia di euro a serata, evade o elude le tasse ed i contributi previdenziali ai lavoratori e lavoratrici che non ha contrattualizzato e che non disdegna di utilizzare le televisioni per denunciare la sua condizione di difficoltà, ma in realtà continua a fare affari ed incassare.

Sicuramente le primissime mobilitazioni a Napoli e in provincia hanno racchiuso più di una contraddizione, tra evasori fiscali e datori di lavoro veri profittatori. E c’erano anche i loro stessi lavoratori, a nero, che si aggrappano a quello che hanno, attività a conduzione familiare, amici del quartiere con la loro rete di relazioni opache, anche politiche, sospinti da una vita ai margini della società ed in condizioni di permanente precarietà.

Si ha ragione a protestare.

De Luca e il Governo in questi otto mesi non hanno fatto nulla per evitare la seconda ondata che si sapeva sarebbe arrivata.

Ora si è costretti a nuove chiusure più o meno generalizzate ma dagli effetti sociali ed economici ugualmente devastanti. È forte il rischio che si condanni interi territori alla fame, ad una disperazione senza sbocchi.

Una vera miscela esplosiva capace di attrarre forze diverse e suscitare tentativi di egemonizzazione. In alcune zone, in particolare al Vomero, le mobilitazioni sono state attraversate anche da gruppi di fascisti e di loro simpatizzanti.

Una presenza sparuta che è risultata del tutto marginale e non in grado di orientare un movimento così variegato e composito.

Ciò che emerge come dato reale è che non si è trattato di una mobilitazione organizzata, con momenti di confronto collettivo, capaci di produrre piattaforme e contenuti condivisi.

Allo stato, resteranno episodi reattivi di fronte a una crisi economica senza precedenti.

Ed è del tutto evidente pure l’insufficienza di un soggetto politico e sindacale in grado di fare sintesi, di proporre una lettura della fase ed un percorso condiviso ed unitario.

A partire dai processi di deindustrializzazione che in questi ultimi 30 anni hanno investito i nostri territori e che continuano a persistere, se si prendono ad esempio la recente vertenza Whirpool e la crisi che sta investendo il Polo aeronautico, il settore auto-motive, ciò che residua dell’industria manifatturiera in regione.

Di fronte a questo scenario appare semplicemente velleitario e fuorviante dividersi tra chi prende le distanze dalle mobilitazioni e chi ne enfatizza lo scontro di piazza.

Una modalità, un approccio che non produce avanzamenti e che spesso si traduce in una insignificanza o immobilismo autoreferenziale e minoritario.

La sinistra istituzionale, semplicemente si taglia fuori dalla possibilità, prima ancora di agire, di capire la complessità e le contraddizioni di questo tempo, affidandosi alla mediazione dei luoghi deputati o della dialettica istituzionale, che resta prigioniera delle compatibilità politiche ed economiche.

Quella radicale che, nonostante il merito di stare nelle mobilitazioni e tentare di provarci, soffre ad elaborare quella progettualità necessaria a produrre un avanzamento verso gli obiettivi della sua classe di riferimento.

Dentro una realtà che ha queste caratteristiche non è facile muoversi senza strategia di organizzazione collettiva e confronto plurale.

Anche gli sforzi del sindacalismo di base, pur generosi, non riescono a fare fronte ad una situazione così disgregata e disomogenea. Eppure gli elementi distruttivi di una lunga stagione di neoliberismo economico sono messi impietosamente a nudo.

Sanità, Scuola, Trasporto pubblico locale sono al collasso.

E sono del tutto evidenti anche i limiti ideologici che hanno accompagnato questi anni di disastro.

La pandemia ha dimostrato  quanto siano state velleitarie in questi anni l’ideologia e le politiche fondate sulla libertà del mercato e sull’assunto che la deindustrializzazione potesse essere sostituita dal settore terziario e dall’industria turistica.

Ci sarebbero le condizioni per rilanciare una vertenza generale, che in qualche modo ponga la centralità della pianificazione dell’intervento pubblico a sostegno delle politiche di sviluppo.

Che contrasti la fuga di quelle eccellenze industriali e delle attività ad alto valore aggiunto.

Che si ponga l’obiettivo di interventi strutturali ed infrastrutturali capaci di dare risposta alla dilagante disoccupazione di massa.

Purtroppo, neanche le avanguardie più combattive della classe operaia sembrano porsi un obiettivo più generale, strette dal ricatto e coltivando l’illusione di trovare soluzione ai propri problemi.

I lavoratori e lavoratrici della Whirpool, che generosamente hanno dato battaglia in questi mesi, avrebbero potuto mettersi alla testa di un movimento più generale di risposta alla crisi.

Il freno a mano della dirigenza del sindacalismo confederale, sempre più protesa a sperare in una nuova stagione concertativa, ha fatto perdere un’ occasione storica, che avrebbe potuto dare risposte generali e costringere il governo a soluzioni più coraggiose, riaprendo il nodo di una vertenza già in agonia.

Nonostante lo scenario sembra senza via di sbocchi, oggi che tutti i limiti vengono evidenziati dalla pandemia in corso, è ancora più necessario ed urgente lavorare ad aggregare quelle forze che si pongono l’obiettivo di invertire la rotta di un neo-liberismo, che, pur in profonda crisi,  continua a presentare un  conto salato alle classi popolari.