LANDINI VERSO IL CONGRESSO CGIL: “CISLIZZAZIONE” COMPIUTA?

La Cgil sta preparandosi al suo 19° congresso. Come di consueto il primo atto propedeutico all’apertura del congresso vero e proprio è l’approvazione del regolamento congressuale, l’insieme di regole che sovrintenderanno a tutta la fase congressuale. Infatti, nel recente direttivo di fine maggio, Maurizio Landini ha fatto approvare la “sua” proposta di regolamento che, come dichiarato dalla portavoce della tradizionale minoranza di sinistra, contiene “un vulnus democratico e un attacco diretto a chi presenterà il documento alternativo. Si decide, a maggioranza, di iniziare il Congresso avvelenando i pozzi”.

In realtà, come cercheremo di raccontare, i pozzi sono già (e da tempo) sufficientemente avvelenati.

Alcuni anni addietro coniammo un termine per dare un nome al processo di progressiva normalizzazione della CGIL e dei suoi quadri: la “cislizzazione”, ovvero la progressiva mutazione delle sue strutture, degli apparati e ovviamente della linea e della prassi politica e contrattuale a favore del modello neocorporativo, aziendalista e fondato sul sindacato impresa, fornitore di servizi, senza più alcun antagonismo nel rapporto con il padronato e con il governo.

Qualcuno ci accusò di utilizzare una terminologia massimalista, tuttavia le scelte che il gruppo dirigente della CGIL ha intrapreso per l’avvio del suo congresso paiono esattamente sistematizzare ulteriormente quel processo.

La scelta di comprimere le assemblee di base in uno spazio di tempo assai limitato (26 luglio-8 ottobre), a cavallo dell’estate rende di fatto impossibile lo svolgimento della campagna di assemblee congressuali in migliaia di luoghi di lavoro. Non c’è bisogno di spiegare il perché.

A ciò si aggiunge la cancellazione del diritto del singolo iscritto a relazionare nelle assemblee di base, prerogativa che spetterà esclusivamente a componenti di strutture territoriali o nazionali. Cosa che ovviamente penalizzerà in maniera drammatica la minoranza interna che ha a disposizione non più di una decina di funzionari contro i 16.000 a disposizione della segreteria landiniana.

La scelta di fondo del gruppo dirigente della CGIL ha due motivazioni principali.

La prima riguarda il complesso governo di un sindacato che vive una profonda crisi, forse politicamente la più grave di sempre ed ha pertanto la necessità di stringere sempre più i propri gruppi dirigenti alla fedeltà e alla lealtà di organizzazione utilizzando anche una buona dose di autoritarismo. E’ una crisi di irrilevanza quella in cui è impantanata la CGIL , una crisi sempre più evidente, manifesta nella sua sostanziale paralisi di fronte ai durissimi processi di ulteriore progressivo ma rapido impoverimento delle classi lavoratrici. Una crisi tanto più grave quanto più negata nei suoi gruppi dirigenti ormai incapaci di affrontare una situazione sempre più difficile con rigore e senza reticenze.

La seconda motivazione delle scelte autoritarie parla della natura della CGIL, intrinsecamente legata alla sua politica contrattuale, con l’adesione ormai anche formale al modello contrattuale CISL che ha sancito la sostanziale fine dei contratti nazionali e il passaggio dal sindacalismo vertenziale a quello corporativo.

La straordinaria articolazione della CGIL sul territorio e nelle categorie produttive è frutto di un’altra stagione, quella appunto della sua storia vertenziale e democratica. L’attuale modello contrattuale non ha alcun bisogno di decine di migliaia di funzionari, attivisti, agitatori, non ha bisogno di discussioni magari animate ma partecipate. E’ un modello di complicità con le imprese. La CGIL deve adeguare il suo modello (organizzativo e di dibattito interno) al mutato contesto.

Così un pezzo alla volta deve cancellare ogni antagonismo interno, ogni voce libera, ogni possibile resistenza al processo. Di più, deve selezionare i gruppi dirigenti, dal luogo di lavoro sino ai direttivi nazionali.

In questo senso Maurizio Landini si è rivelato abilissimo nelle chiacchiere nelle interviste e nei talk-show ma assolutamente in linea con i precedenti leader di Corso Italia nel non saper adottare alcuna iniziativa capace di impedire o almeno di frenare e rallentare l’offensiva governativa e padronale. Anzi, Landini si è assunto in prima persona la responsabilità di chiudere la stagione della “disobbedienza” FIOM, facendo rientrare nell’alveo della concertazione anche la federazione dei metalmeccanici e di farle adottare la sostanza di quei “contratti separati” che la FIOM di Rinaldini e Cremaschi non aveva voluto firmare.

Nella sua scalata al vertice dell’organizzazione confederale, Landini si è dimostrato abilissimo nella gestione autoritaria del potere, ha cancellato le pur flebili voci critiche della maggioranza dei gruppi dirigenti, riconducendoli a più saggi comportamenti consoni, ai dipendenti di impresa che tengano al loro posto di lavoro.

Ma sbaglia chi pensa a un golpe a ciel sereno, chi pensa che improvvisamente oggi “i pozzi siano avvelenati”. E’ almeno dal lontano 2006 che i congressi del maggior sindacato italiano sono falsati nelle regole, per quanto riguarda gli equilibri politici. Con il tristemente famoso “patto dei dodici segretari”, sottoscritto da Epifani, allora segretario generale, sino alla componente di Giampaolo Patta, leader dell’area di “Lavoro Società”, fu definito un accordo che, già prima del 15° congresso, confermava a tavolino le percentuali esistenti nella spartizione dell’organizzazione, a prescindere, evidentemente, dal voto degli iscritti e delle iscritte. Un accordo che congelava i gruppi dirigenti, le percentuali delle aree e delle cordate di potere. L’obiettivo era un congresso finto, una semplice discussione ad uso politico sul piano generale.

A quel patto si oppose e si sottrasse la FIOM di Rinaldini che presentò due tesi alternative su contrattazione e democrazia e la sinistra di opposizione, allora capeggiata da Giorgio Cremaschi, denominata Rete 28 aprile, nata esattamente sull’onda di indignazione per la scandalosa spartizione. Il patto venne confermato nelle percentuali e il risultato delle tesi alternative di Rinaldini fu umiliato nella composizione dei gruppi dirigenti.

Più recentemente la stessa nascita delle assemblee generali, ovviamente ipocritamente proposte quale strumento per aumentare la partecipazione, ha svuotato di senso i comitati direttivi, riuniti sempre più raramente, che, secondo lo statuto, hanno la responsabilità di definire le scelte dell’organizzazione ad ogni livello. Così i direttivi hanno lasciato il posto a adunate plebiscitarie per l’elezione dei segretari, più comizi che discussioni e confronti.

Non dimentichiamo infine che la CGIL decise nel 2016, sotto la guida di Susanna Camusso, che i delegati FIAT che organizzavano scioperi e partecipavano a coordinamenti con delegati di altre organizzazioni divenissero “incompatibili”, ovvero da espellere. Cosa che avvenne puntualmente.

Non meno gravi furono, in sequenza, prima la destituzione di Sergio Bellavita dalla segreteria nazionale FIOM nel 2012, ultima segreteria nazionale plurale, e poi il suo licenziamento nel 2016 dalla CGIL, quando ricopriva la carica di portavoce nazionale dell’unica minoranza interna alla CGIL.

Dunque, non è da oggi che in CGIL il pluralismo, un vero pluralismo, è considerato incompatibile. Lo spazio per agire il pluralismo non si misura sulla possibilità per le iscritte e gli iscritti di esprimere in maniera formale un dissenso e perfino di organizzarsi in area di minoranza, ma sulla possibilità di queste aree di partecipare realmente alla vita del sindacato, alla costruzione collettiva delle sue scelte. Il pluralismo non è un inconveniente tollerato: o è parte dell’organizzazione ad ogni livello o non è.

Da questo punto di vista la riduzione umiliante degli spazi di pluralismo ha una data formale, il 2010, al 16° congresso. Il documento alternativo “La Cgil che vogliamo”, sottoscritto da Gianni Rinaldini (allora segretario generale Fiom), da Giorgio Cremaschi (leader della rete 28 aprile), da Podda (segretario della FP CGIL), da Domenico Moccia (segretario della FISAC), e da numerosi altri dirigenti della confederazione (Nicoletta Rocchi, Marigia Maulucci e lo stesso Maurizio Landini) venne pesantemente sconfitto, a suon di decine di migliaia di voti usciti dal nulla. Il colossale broglio venne rigorosamente documentato e mai la CGIL, dopo averlo minacciato, osò sfidare in tribunale le denunce della minoranza. La sconfitta formalizzò clamorosamente già allora, oltre dodici anni fa, l’incapacità della CGIL di governare una fase complicata sul piano politico dopo la fine dei grandi partiti di massa.

Prima del 1990 la CGIL era organizzata su componenti di partito esplicitamente dichiarate: PCI e PSI erano componenti pubbliche interne. Per assurdo quel modello, seppur preconfezionato, garantiva un pluralismo ed una capacità di discussione di ben altro spessore rispetto a quella attuale. Il passaggio dalle componenti di partito alle aree programmatiche non si è mai compiuto davvero e gli eventi sul piano politico e sociale hanno fatto il resto.

Oggi la CGIL non ha più alcuna differenza sostanziale con CISL e UIL, se non una “memoria storica”, una “falsa coscienza” peraltro sempre più appannaggio esclusivo dei gruppi dirigenti. Non è un caso che si sia intensificata la mobilità di delegati e iscritti tra le tre diverse organizzazioni, complice il processo di spoliticizzazione. Landini nel congresso propone persino la costituzione di “direttivi unitari CGIL CISL UIL”, un passaggio che, se concretizzato, svuoterà ulteriormente i già vuoti luoghi decisionali di ogni singola organizzazione.

Tuttavia la degenerazione della CGIL e la sua progressiva “cislizzazione” sono parte di un processo lungo, articolato e contraddittorio che ha conosciuto una vera e propria svolta con la fine ingloriosa dell’anomalia FIOM e la scomparsa di ogni argine al gruppo dirigente confederale. Oggi non è azzardato affermare che tale processo si è sostanzialmente concluso. Ciò non significa che sia irreversibile. Sotto la spinta di una ripresa di un vero conflitto sociale ogni organizzazione, CGIL compresa, verrebbe stravolta e costretta a aprirsi e confliggere. Tuttavia è evidente che il fulcro dell’impegno per la ricostruzione della soggettività necessaria per un nuovo ciclo di lotte di classe, che un tempo si riteneva giustamente passare prevalentemente per la CGIL , oggi deve essere cercato altrove, ogni conflitto aziendale (come nel caso GKN), in ogni lotta locale (sapendo che buona parte delle poche lotte che si svolgono sono gestite da organizzazioni sindacali diverse dalla CGIL), anche in tutte le organizzazioni sindacali, Cgil compresa, ma senza continuare a ritenerla la sede privilegiata di una possibile ricomposizione conflittuale.

Se Atene piange Sparta non ride.

Il sindacalismo conflittuale non vive una situazione esaltante. Ha certo capitalizzato in parte l’emorragia di iscritti dai sindacati maggiori, ma in un quadro di progressiva frantumazione organizzativa che alimenta rissosità e competizione. Inoltre, la questione democratica è assolutamente trasversale al sindacato italiano in tutte le sue forme e riguarda tutte le organizzazioni dei lavoratori. La ragione è legata alla persistente fase politica e socio-economica di progressivo e inarrestabile arretramento, di disintegrazione del blocco sociale di riferimento, di mancato ricambio generazionale.

Per queste ragioni il tema della ricostruzione di una soggettività è centrale. Si tratta di unire mutualismo e conflitto. L’attenzione al singolo e la ricostruzione di una coscienza collettiva appaiono imperativi per chiunque abbia ancora a cuore la costruzione di un sindacalismo democratico, conflittuale e di massa.