LA CRISI DEL SINDACATO CONFEDERALE E L’APPARIZIONE DI UN NUOVO SINDACALISMO

Vignetta da Gasparazzo di Roberto Zamarin

DI TIZIANO LORETI, ESECUTIVO NAZIONALE SI COBAS

Da qualche tempo giornalisti particolarmente vicini alle questioni del mondo del lavoro, come  Gad Lerner, cercano di spronare la Cgil a riprendere un ruolo centrale nei conflitti che attraversano i vari settori, produttivi e non, del nostro paese.

Quello che manca, però, è un’analisi oggettiva che affronti la crisi in cui versa la Cgil, una crisi legata alla mancanza di strategia, di scelte programmatiche, di insediamento, di immagine e di rapporto con i lavoratori, una crisi che determina uno smottamento costante e ormai definitivo.

Una crisi dovuta all’incapacità della CGIL di misurarsi con le trasformazioni negli ultimi trent’anni della nostra società e dello sviluppo del capitalismo.

A questo si aggiunge una classe dirigente sindacale, inadeguata, cresciuta con il miraggio dell’Eldorado concertativo e quindi incapace di adeguarsi a scenari mutati profondamente.

Non so se in riferimento a questi dirigenti si possa utilizzare la parola “venduti” e sinceramente mi interessa ben poco, credo si siano dimostrati incapaci di leggere correttamente i fenomeni di cambiamento, anche contraddittori, delle fasi che si sono succedute in questi anni.

Ecco allora che fare sindacato è diventata un’attività di sopravvivenza, gioco forza condizionata sempre più dai meccanismi di scambio, della gestione dei servizi, dei fondi negoziali. Le risorse finanziarie che entrano e che sono diventate la principale delle attività sindacali, risultano evidentemente estranee e in contrasto con ogni pratica conflittuale e  rivendicativa.

Salvare la bottega e l’apparato che ci lavora è diventata la priorità, la più gettonata.

Maurizio Landini viene eletto segretario nel gennaio 2019, dopo un congresso in cui l’idea unitaria è solo una parvenza e frutto di una mediazione di fronte ad uno scontro tra pezzi di apparato.

In realtà il dibattito congressuale e la sua conclusione sono state la conferma della crisi di prospettiva del sindacato e Landini con il suo appeal mediatico ha rappresentato la foglia di fico davanti al vuoto politico e culturale di una stagione e, come qualcuno ha scritto,  l’equivalente della scarica elettrica applicata alle anguille, che certi pescivendoli napoletani, un tempo, usavano per offrire un’illusione di vitalità alla merce esposta. L’arrivo di Landini alla guida della Cgil ha rappresentato l’accentuazione del vivacchiare, che non significa tenuta, dell’incapacità di costruzione di una qualsiasi strategia e idea programmatica.

Landini, considerato un’icona per buona parte della sinistra del nostro paese, ha una storia diversa: il suo percorso dal 2010 in avanti è lo stesso percorso di normalizzazione della Fiom, che pure una funzione aveva avuto nel dibattito pubblico italiano negli anni dell’offensiva Fiat. Del resto, il manifesto per avanzare la sua candidatura a segretario fu la firma apposta nel 2016 al peggior contratto della storia dei metalmeccanici, un contratto in cui gli aumenti in paga base risultavano quasi azzerati; quella firma certificò quell’ “atto di responsabilità” che rendeva Landini più che accettabile anche agli occhi dei pezzi di burocrazia che lo avevano osteggiato negli anni dell’effimero protagonismo Fiom.

Dunque vieni premiato se hai il coraggio di firmare un contratto, che al tempo fece sobbalzare anche Susanna Camusso, che peggiora le condizioni di vita di milioni di lavoratori.

Oggi il governo Draghi, in questa fase di “unità nazionale”, ha bisogno di presentare agli occhi del paese un qualche elemento che si richiami alla concertazione, per gestire senza ostacoli e con la garanzia della pace sociale i fondi del Recovery Fund.

I tavoli, le consultazioni, le conferenze stampa hanno lusingato e confuso ancora di più i gruppi dirigenti Cgil, persi nell’illusione di essere tornati in pista per qualche ruolo.

Oggi, quei giornalisti che vogliono sollecitare la Cgil guardano il dito che indica la luna: il sindacato che fu di Di Vittorio oggi ha perso la sua anima ed è uscito dalla sua storia.

Ciò che succede nella logistica, nelle vertenze Fedex, o nel Macrolotto del tessile a Prato e in altri settori ci indica la crisi senza fine che attraversano i sindacati confederali, ma ci dice anche che sta crescendo un altro modo di fare sindacato, che qualcuno ha recentemente definito eretico, che sta innervando nuova forza, grande consapevolezza, determinazione.

Sono i lavoratori e le lavoratrici della logistica, del tessile, degli alberghi: sono quei lavoratori e quelle lavoratrici, quei dirigenti sindacali che non fanno comparsate nei talk shows, o che non fanno notizia sui giornali se non quando ricevono denunce, o arresti o che vengono uccisi davanti ai cancelli, come successo ad Adil.

Sindacati che non hanno governi amici, che non vengono ricevuti nei palazzi pieni di marmi, che non vengono invitati ai tavoli istituzionali ma che rappresentano un pezzo di società che in questi anni ha pagato un prezzo altissimo, prima con i licenziamenti, lavorando senza diritti e con salari da fame e poi con la salute e la vita nel periodo pandemico.

Lavoratori costretti ad accettare accordi firmati da sindacati da cui non si sentono rappresentati, lavoratori e lavoratrici alle cui richieste si risponde coi manganelli o con bodyguard prezzolati, ma che hanno comunque deciso che, di fronte ad un sistema predatore che usa ogni aspetto della vita per trarre profitto, non ci possono essere mediazioni.

Oggi non è più il tempo della concertazione o della cogestione, che pare essere la nuova frontiera confederale.

Oggi è necessario costruire un fronte conflittuale, a partire dai lavoratori e dalle lavoratrici, che coinvolga il mondo del non lavoro, del precariato, delle partite Iva, in grado di coinvolgere tutti i sindacati di classe, abbandonando l’idea dell’autosufficienza e delle questioni di bottega.