IL RECOVERY PLAN: SENZ’ANIMA NÉ PROGETTO

Un progetto che riconferma nel contenuto, nel percorso di elaborazione e in quella che ne sarà la gestione le più bieche politiche liberiste degli ultimi decenni. Tanto per cambiare, le imprese al centro. L’inquietante silenzio dei sindacati confederali

DI SERGIO BELLAVITA

Non sappiamo come si concluderà la crisi di governo. È probabile che, considerata la nota ritrosia dei parlamentari a perdere la carica, Conte riesca a raffazzonare una nuova risicata maggioranza che gli consenta, forse, di arrivare al termine della legislatura passando per l’elezione del capo dello stato.

Probabile ma non scontato, in quanto il segno prevalente di questa fase politica sembra essere il caos. Alcune delle ragioni che ha sollevato Renzi, dal quale ci divide un abisso politico e morale, paiono del tutto condivisibili.

Nel metodo in particolare, il Recovery Plan, con le esorbitanti risorse che il governo ha a disposizione dopo decenni di austerità di bilancio, avrebbe dovuto essere discusso e elaborato prima di tutto dal parlamento, espropriato invece da task force, lobbies, consiglieri e fantomatici esperti.

Il dubbio, con qualche ragione di fondo, è che in realtà la progettualità del Recovery fosse in qualche modo delimitata dalle richieste della UE e quindi non disponibile ad essere modificata nel suo impianto di fondo.

Il testo approvato dal Consiglio dei ministri pare infatti senz’anima, senza una progettualità di fondo rispetto alla condizione del paese ed in totale dissintonia con i bisogni sociali.

Il Recovery Plan licenziato appare invece in totale coerenza con le stesse politiche ultraliberiste che hanno dissennatamente impoverito il paese negli ultimi trent’anni e per questa ragione di sicuro gradimento della commissione europea.

La concezione di fondo di ogni provvedimento è la supremazia del mercato e delle imprese a cui viene, nonostante l’evidenza dei fatti, affidato il ruolo di regolatore dell’economia.

I tre grandi assi su cui si muove: digitalizzazione e innovazione: transizione ecologica e inclusione sociale in nessun caso si discostano da questo assunto di fondo.

La premessa recita quasi testualmente: Rafforzare l’ambiente imprenditoriale anche rimuovendo i presunti vincoli agli investimenti o alla ridotta produttività contestualmente ad una riforma della giustizia che garantisca celerità e tempi definiti.

È evidente il richiamo ai celeberrimi “lacci e lacciuoli” di dalemiana memoria che invocavano la libertà di impresa contro i vincoli contrattuali, sociali e ambientali degli investimenti produttivi.

La stessa revisione del sistema fiscale pare più orientata ad un nuovo taglio del costo del lavoro piuttosto che una rimodulazione in senso progressivo delle aliquote con la conseguente riduzione delle entrate tributarie, a tutto vantaggio del welfare privatistico.

Non di meno sul tema occupazione il governo, o quello che ne resta, ripropone il mantra, abbastanza usurato peraltro, del potenziamento dei centri per l’impiego in collaborazione con il privato per l’incrocio tra domanda e offerta,

Il Recovery Plan conferma l’abdicazione al mercato anche della politica industriale; non v’è traccia infatti di una programmazione industriale, di un nuovo ruolo attivo dello Stato in economia nonostante il pesante depauperamento del tessuto industriale che ha consegnato l’Italia al ruolo di subfornitura dei paesi più industrializzati.

Inoltre, vale la pena di sottolineare un passaggio del testo che recita: “garantire una retribuzione proporzionale alla quantità ed alla qualità del lavoro”. Come sarà declinata questa incredibile affermazione lo vedremo nei prossimi mesi ma è certo che il governo ha fatto proprio il pensiero della Confindustria in merito ai salari.

In sostanza non solo il Recovery non parte da una presa d’atto della situazione attuale e da una valutazione critica delle politiche degli ultimi trent’anni ma ripropone con rinnovata enfasi ricette e proposte che sono anch’esse, in larga parte, responsabili della drammatica situazione sociale delle classi popolari.

È indubbio che il piano avrà un effetto positivo sull’economia complessiva, ovvero sulla crescita del Pil, ma sarà un effetto del tutto congiunturale in quanto non si aggrediscono alle fondamenta le diseguaglianze, il tema dei bassi salari, del ritorno ad un sistema pensionistico pre Fornero, di una riduzione generalizzata degli orari di lavoro a parità di salario, del ritorno di un ruolo diretto dello stato in economia.

Per queste ragioni il piano straordinario è senz’anima, senza un progetto per il futuro del paese.

E è inquietante che Cgil Cisl Uil non abbiano avuto nessuna obiezione di rilievo nel confronto con Conte.

È sempre più necessario che chi esprime un punto di vista alternativo si coordini e si organizzi. Ce ne sarà bisogno.