EX ILVA, MITTAL HA VINTO: IL VELENO È PUBBLICO, IL PROFITTO PRIVATO

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DI SERGIO BELLAVITA

Sebbene siano tutt’ora segretate le condizioni del nuovo accordo intercorso tra il governo Italiano e Mittal che, riscrivendo l’accordo del 2018 sulla cessione del gruppo siderurgico alla multinazionale ArcelorMittal, ha chiuso lo scontro che si era aperto per la decisione di Mittal di disdettare nei fatti ogni impegno assunto, ambientale, occupazionale e produttivo, una cosa è chiara: il magnate indiano Mittal ha vinto la sua battaglia.

Con un’abilità pari all’arroganza con cui si è presentato in Italia è riuscito in due anni a conquistare condizioni a suo vantaggio persino migliori di quelle che l’ex ministro Calenda gli aveva inopinatamente concesso su un piatto d’argento e che erano state sconfitte dall’iniziativa sindacale.

Lo Stato italiano entra nel capitale con risorse straordinarie ed assume su di sé gli oneri più delicati e complessi di tutta la vicenda, quelli ambientali e occupazionali, oltre ad assumersi parte rilevante dei costi economici.
Così mentre lo Stato farà il lavoro sporco e si prende i veleni, padron Mittal potrà proseguire, a prezzo politico, lo sfruttamento degli impianti.

Non è certo questa la nazionalizzazione della siderurgia che avevamo immaginato; continuiamo ad essere certi che quando Mittal avrà terminato la sua speculazione e non avrà più alcun interesse in rapporto alle sue strategie globali, lascerà l’Italia e il gruppo siderurgico si avvierà rapidamente, e senza alcuna programmazione, ad una rapida dismissione.

In realtà stiamo assistendo ad una nuova puntata della lenta ed inesorabile agonia della siderurgia italiana partita diversi anni fa.

Nessuno può seriamente credere che l’ex ILVA diventerà green, ovvero produrrà acciaio a caldo abbattendo le emissioni mortifere che avvelenano la città di Taranto: lo testimonia il fatto che delle tanto sbandierate bonifiche non v’è alcuna traccia.

La ragione è semplice ed è puramente economica. La complessità e l’onerosità dell’intervento sugli impianti attuali dello stabilimento tarantino, ormai vetusti ed al collasso, è tale che sarebbe molto più semplice e profittevole costruire ex novo un impianto siderurgico cosiddetto green.

Per queste ragioni il governo, anziché piegarsi vergognosamente ai ricatti di Mittal, avrebbe dovuto impiegare quelle risorse economiche per chiudere ogni fonte inquinante, riprogettare lo stabilimento e l’intera città.

Per liberare Taranto dal micidiale ricatto, disoccupazione o veleno, occorreva garantire reddito incondizionato ai lavoratori dipendenti ed a quelli delle aziende in appalto, chiudere immediatamente tutta l’area a caldo, con buona pace dei sindacati dell’ex ILVA di Genova che continuano a pretendere che Taranto produca e uccida pur di salvare il loro stabilimento (attualmente condizionato alle produzioni tarantine), avviare le bonifiche e costruire un grande progetto economico, sociale ed ambientale per la città.

Invece il ceto politico di governo (e di opposizione) per complicità ma anche per totale inadeguatezza ha preferito vivacchiare di slogan e grandi proclami, conferenze stampa e titoli altisonanti con il solo ed unico obiettivo di non affrontare la realtà, tenere calmi gli animi, e lasciare ad un bieco speculatore la gestione della patata bollente ex ILVA.

L’ex ILVA è esattamente la cartina di tornasole dello stato di profondo degrado del paese, della debolezza dei movimenti antagonisti e dell’estrema difficoltà, anche per quella parte del sindacato che con tenacia conduce una battaglia per la chiusura delle fonti inquinanti, di costruire una mobilitazione straordinaria per imporre una diversa agenda al governo.

Non bisogna demordere tuttavia, occorre continuare a lavorare e combattere per un altro modello di sviluppo, a Taranto e sul piano generale.