DRAGHI, LANDINI & C VERSO UN PATTO, MA IN NOME DI CHI?

Adattamento immagine da World Economic Forum - Flickr: Special Address: Mario Draghi, Link e Filea CGIL - Flickr.com, CC BY-SA 2.0, Link

A distanza di soli tre anni dalla firma del “patto per la fabbrica”, che, è bene ricordare, chiuse formalmente la fase delle divisioni sindacali sul modello contrattuale con l’accettazione dell’ulteriore svuotamento di valore del CCNL da parte della Cgil guidata all’epoca da Susanna Camusso, si torna a discutere di un nuovo patto sociale.

In verità il tema della presunta necessità di un patto – che triangolare (padroni, governo e sindacati) o bilaterale (padroni e sindacati) – è un tema più che ricorrente della politica italiana.

La storia politica e sindacale del nostro paese è lastricata di numerosi patti sociali, evidentemente poco proficui e di bassissimo profilo considerata la loro esigua durata temporale, giusto qualche giorno agli onori delle cronache.

Tuttavia occorre precisare che, ed è un dato importante, la sequela dei patti ha contrassegnato l’accumularsi di peggioramenti sulla condizione di chi lavora.

Un nuovo patto sociale, infatti, non riscrive mai quello precedente se non in peggio, sussume gli aspetti di profitto per il padronato e gli consente di accumularne altri, conquistati grazie alla campagna ideologica che si scatena un minuto dopo la sottoscrizione del patto precedente.

La questione pone almeno tre temi di fondo: la democrazia, il disequilibrio perenne del sistema economico e lo sbocco della crisi di rappresentanza, ovvero la natura delle organizzazioni di rappresentanza.

Cgil, Cisl e Uil si sono recate a palazzo Chigi per disquisire con Draghi in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro (qualcuno deve aver consigliato di salvare almeno la forma mettendo come primo punto  le misure contro la drammatica contabilità degli omicidi sul lavoro).

E’ così partito un confronto in cui nessuna delle organizzazioni sindacali coinvolte agisce in nome e per conto di un mandato esplicito da parte di chi vorrebbero (?) e dovrebbero rappresentare. Nemmeno nei gruppi dirigenti deputati statutariamente a definire le scelte di organizzazione si è discusso sul se e sul come andare ad un confronto con governo e Confindustria (che, possiamo scommetterci, arriverà…).

In questo quadro pare inutile sottolineare che i lavoratori sono stati persino cancellati dalla vita del sindacato e relegati a soggetti passivi.

La democrazia negata non è semplicemente (per quanto di per sé fatto già gravissimo) un vulnus sulla rappresentanza, quanto piuttosto l’elemento su cui si fonda e che garantisce il processo di spoliazione di diritti e salario dei lavoratori.

E’ proprio nella cancellazione della partecipazione che si possono assumere scelte impopolari senza rischiare di essere travolti dalla verifica di consenso.

Le politiche contrattuali del sindacato complice si costruiscono sugli affidamenti con le imprese e sulle compatibilità vere o presunte del mercato, ed è per questa ragione che non si sostiene un percorso partecipato con i lavoratori per la definizione delle piattaforme e si introducono codificazioni contrattuali che sanciscono la fine dell’autonomia rivendicativa del sindacato: complicità sindacale e democrazia negata sono due facce della stessa medaglia.

Il secondo tema di fondo è quello che riguarda l’impossibilità e/o l’incapacità di definire politiche economiche e sociali di lungo periodo che stabilizzino quantomeno gli aspetti più importanti del sistema istituzionale e socioeconomico. Ogni riforma, o controriforma più correttamente, nel momento stesso in cui viene implementata si dimostra insufficiente rispetto agli obiettivi ufficiali.

Se da una parte non c’è alcun dubbio che l’attuale classe dirigente non ha le capacità politiche e la volontà per costruire politiche di rottura rispetto alla spirale debito/tagli/impoverimento/nuovo debito, dall’altra è nella lettura di questa fase del capitalismo che va ricercata la situazione di perenne crisi globale.

Da almeno quarant’anni l’umanità è dentro ad un’immensa centrifuga che ridisegna equilibri, poteri, divisione internazionale del lavoro, valore dei salari con una velocità impressionante.

L’equilibro semplicemente non c’è e non ci sarà sino a quando non si ritornerà a imporre vincoli sociali importanti al capitale.

Il terzo tema di fondo è quello che riguarda la crisi di rappresentanza. La scelta di Cgil-Cisl-Uil di fare a meno del consenso delle lavoratrici e dei lavoratori ha delle conseguenze enormi per quanto riguarda la natura di quelle organizzazioni.

La decostruzione (complice) del modello sindacale edificato negli anni sessanta-settanta del Novecento, fondato sulla partecipazione e sul conflitto, alimenta il passaggio al sindacalismo corporativo e istituzionale,  finanziato da imprese e governi. Il patto sociale perennemente reiterato rappresenta la forma attuale della loro legittimazione istituzionale e garantisce loro la sopravvivenza degli apparati.

Il quadro che emerge dal combinato disposto di questi processi rappresenta bene le ragioni del poderoso smottamento a destra del paese ma soprattutto delle classi popolari.

Un quadro che apre – o che perlomeno dovrebbe aprire – a riflessioni approfondite su quale strada intraprendere per ricostruire un modello sindacale adeguato ai compiti di fase.

Per quanto ci riguarda, continuiamo a denunciare lo scippo di democrazia dei segretari generali di Cgil-Cisl-Uil, il loro agire per interessi assolutamente diversi da quelli delle lavoratrici e dei lavoratori.

Non si può aprire un negoziato con padroni e governo senza definire una piattaforma generale del mondo del lavoro costruita sui bisogni sociali. E d aprire un negoziato con i padroni (tanto più con i padroni che si riconoscono nella guida di Bonomi) e con un governo (tanto più se si tratta del governo Draghi, salutato dalla standing ovation dell’assemblea confindustriale) richiederebbe predisporre anche gli strumenti per un duro e lungo conflitto.

I padroni la loro piattaforma ce l’hanno.

Non a caso lo chiamano “patto”, perché sanno che patto e conflitto sono in contraddizione.